INSIEME ALL’UMANO

Altre cartografie di Julie Polidoro

 

– Che cosa insegnarti se non l’amore?

– Ma che cos’è l’amore?

– Solo lo puoi sapere

quando diventerai

ciò che sta davanti a te

– Ora sei tu, qui davanti a me

– Diventa me! Diventa me!

– E dopo?

– Dopo diventa uno con tutto quello che c’è

– Ma così non sarò mai nessuno

– Sì, questo è il meglio che ti possa capitare.

 

Mariangela Gualtieri, Requiem per Pinocchio (2022)

 

Julie Polidoro è una artista in cammino. I suoi lavori avanzano per passi, e i passi, al contrario delle ruote, mantengono la memoria. Anche le ruote, a dire il vero, mantengono una forma di memoria perché si consumano. I passi invece sono corpo, sono cioè un processo di memoria. La memoria umana è più un sentimento che una consunzione, accumula più che consumarsi, deforma ancora di più di quanto lasci andare. D’altronde noi parliamo e le ruote no, o non ancora.

Al centro di questa serie di dipinti di Polidoro stanno i corpi. Interi. Realistici. Reali. Aggettivi che, prima, non si sarebbero potuti affiancare ai lavori di Polidoro. L’umano era scomposto, in assenza, in metamorfosi. Essenzialmente. Organi e parole nei frigoriferi, braccia smontate come elementi lignei di bambole o pupazzi, umani che sbocciano come vasi di fiori, metamorfosi, cartografie, geografie e tele piegate, oggetti che pur presupponendo l’umano – tavoli, sedie, forchette, utensili vari – erano (e sono giacché la pittura ferma) rappresentati in assenza. In assenza e in prospettiva.

Torno alla memoria perché è come se ogni singolo dipinto di Julie Polidoro dovesse condurre a questo punto e non un altro. Come se, visto da questi corpi, il passato non fosse, per riprendere La Tempesta di William Shakespeare, un prologo. Il passato è un prologo e il punto in cui Julie Polidoro è arrivata, e lei con noi, è un punto di arancioni e gialli, viola e fucsia, rossi e blu. Julie Polidoro che ha scomposto e ricomposto in campo largo o per minuzia e arzigogolo geometrico il mondo, si è qui votata a rappresentare l’umano. Ha disegnato prima spazio e tempo affinché l’umano non si trovasse spaesato e sperduto. Prima il giardino, poi l’umano. Il percorso artistico di Polidoro conduce dunque all’accoglienza e non sorprende dunque che questa accoglienza strutturale mostri oggi tutta la sua efficacia e la sua necessità: i corpi dipinti da Julie Polidoro sono corpi migranti.

Se la migrazione dei corpi, in questo luogo di diritti che chiamiamo Occidente, è una migrazione, essenzialmente, di genere, o in tale sfumatura statistica viene utilizzata la parola, la migrazione, in quel luogo fuori dall’Occidente che chiamiamo resto del mondo, è fisica. Ed è epica. È un esodo. Corpi che camminano, si imbarcano, corpi che si perdono in mare, corpi superstiti che camminano ancora, corpi che cambiano nella forma e nel colore, corpi dotati di dispositivi cellulari che restano accesi anche quando le scarpe sono ormai rotte e i talloni insanguinati, quando l’acqua è finita e quando la speranza, che è l’ultima a morire, è ormai morta, cellulari che rimangono accesi perché l’esodo porta con sé la necessità della testimonianza. Con qualsiasi mezzo.

La migrazione conduce con sé racconti, forse si potrebbe sostenere che senza migrazione fisica – in tutti i sensi di questo aggettivo – non c’è racconto e, come è evidente da questi lavori di Polidoro, nemmeno immagini.
Dopo corpi antropomorfi che mutavano in altro, carte geografiche che conservavano la memoria dello sguardo umano che le aveva confuse o fraintese o delle mani umane che le avevano composte i solidi platonici o che tali aspiravano ad essere, dopo frigoriferi che erano, invero, capsule di tempo e desideri e dopo spazi da abitare o abitati ma mai nel presente del corpo, Julie Polidoro è arrivata all’umano.
Insieme all’umano.

 

Chiara Valerio, scrittrice, il suo ultimo libro è La tecnologia è religione (Einaudi).