BUONASERA ALLE COSE DI QUAGGIÙ*
un breve testo per l’opera di Julie Polidoro scritto da Lisa Parola

 

Quella di Julie Polidoro è una pittura che corrisponde ad un inedito circumnavigare il mondo, una mappatura che unisce su uno stesso piano i luoghi, gli oggetti e le persone; un muoversi per immagini utilizzando quella che lei stessa ha definito gerarchia mobile. A quels territoires j’appartiens? Si domanda l’artista; all’intorno pare rispondersi. Non esistono priorità di senso nella ricerca dell’artista; il suo senso è piuttosto un andare che è un interrogativo, un domandarsi che è la traduzione sintetica di attimi e incidenti del guardare. È attraverso questo procedere che l’artista fa luogo, attraverso una pratica di catalogazione che capta e poi sedimenta in una memoria prossima dalla quale emergono fragili equilibri tra spazio e luogo, tra immaginario e realtà, tra individuale e collettivo. Appunti dello sguardo che si fondono poi in un unico piano composto da accenni di identità, avanzi di strumenti quotidiani, brevi tracce di spazi collettivi e interni privati. La pittura di Polidoro è uno spazio multiplo e contraddittorio, un intreccio che si sviluppa per rallentamenti, divagazioni, parallelismi. E qui il tempo pare quasi fermo, ma non del tutto assente. Passa, adagio mentre le figure, con i luoghi e le cose portano con loro un’ombra, un margine. Perché è il margine il luogo che l’artista guarda. Uno stare nell’intorno che non esclude il centro ma lo ingloba e segna spazi, territori e confini che passano da un’immagine ad un’altra e un’altra ancora. Le immagini di Julie Polidoro divengono allora occasioni che incontrano il tutto ciò in cui ci si imbatte percorrendo la vita: le cose toccate in un unico giorno, i percorsi quotidiani, gli alimenti ingeriti, il loro costo, gli spazi di passaggio e le stanze domestiche. In molti lavori l’autrice costruisce la struttura dell’opera – più segno che pittura – attraverso poche linee che delineano sovrapposizioni di luoghi e accennano a situazioni che raccontano e attraversano attese, spazi anonimi, tragitti, oggetti visti e riprodotti secondo una sua peculiare cifra stilistica che consiste nella pratica di un’inedita logica visiva. Linee tronche e sospese, zone di colore, soggetti diversi e simili, tutto un farsi privo di concatenazioni lineari apparenti ma che diventa, nell’analisi del lavoro un fare mappa che è determinato sempre dalla complessità, senza timore che il senso dell’immagine trovi una sua definitiva ragion d’essere. Non c’è fedeltà nelle registrazioni del reale e nelle gerarchie; impossibile decifrare luoghi reali o immaginari; lo spazio, come l’identità, è piuttosto un accenno. Vivant dans l’impermanence, mon identitè est elastique così l’artista francese definisce sé e il suo lavoro, dimensioni che si scontrano in una particolare coesistenza di piani; figurativi ed esistenziali. Cose, spazi e persone occupano lo stesso raggio di visibilità ma sono al contempo agli antipodi e contigui.

“Si nascondeva nello spazio tra il frigorifero e la finestra senza sorridermi, prendeva a camminare facendo un passo grande prima, poi uno piccolo e di nuovo uno grande, sempre sulle mattonelle bianche, non calpestava mai quelle grigie, se per sbaglio una grigia tornava al frigorifero.”

 

* Il titolo del testo e la citazione sono presi in prestito dalla scrittura di Antonio Lobo Antunes.